Riflessioni di un praticante
Pratico yoga da 10 anni e lo insegno da circa 3.
E’ un viaggio, lungo e faticoso, ma pieno di soddisfazioni e, a volte, anche di dubbi.
Molto spesso, quando ci si trova a dover guidare una classe, ci si pone la domanda: lo sto facendo nel modo giusto? Esiste un modo giusto per insegnare? Osservi gli allievi che vanno e vengono, e ti metti in discussione, piacerà questa pratica? Cosa si aspettano da te?
Non credo ci sia una risposta giusta a queste domande, così come non credo che si debba insegnare in base alle aspettative delle persone che hai di fronte. Bisogna insegnare la propria esperienza, affinché diventi un punto di partenza per l’allievo e possa così sviluppare la propria pratica personale (svadyaya).
Molti pensano che la pratica del vinyasa sia troppo fisica, anzi, molto spesso viene confusa come un allenamento puramente fisico, come lo sforzo massimale di un allenamento sportivo.
La serie di chaturanga presente nei Suryanamaskar iniziali spesso spaventa, fa sudare, stanca, è difficile da affrontare. Poi magari, paradossalmente, ci si appassiona a workshop basati su sospensioni sulle braccia e inversioni estreme. Ha senso? Come si pensa di poter affrontare posizioni cosiddette avanzate se non si ha l’umiltà di affrontare la base della pratica?
Una pratica avanzata non consiste nel fare acrobazie. Una pratica avanzata trova la sua consistenza nella consapevolezza del proprio respiro.
Credo che, molto spesso, si sbagli l’approccio (io ho fatto lo stesso errore!).
Non bisogna lavorare solo con il corpo. Bisogna lavorare – come afferma Prashant Iyengar nel suo testo “Alpha & Omega of Trikonasana” – con corpo, mente, respiro e sensi per educare corpo, mente, respiro e sensi. In questo senso lo yoga è una disciplina euristica.
L’attenzione al respiro è fondamentale.
Un respiro, un movimento.
Questo è il motto che mi è stato insegnato e che cerco (cerchiamo) di trasmettere durante le classi. Lavorare più con il respiro che con i muscoli, espandere la postura dall’interno verso l’esterno e cercare di non fare l’asana, ma di diventare l’asana.
Questa è la chiave che cambierà la propria pratica, che renderà più consapevoli, che consentirà di trasformare la propria esperienza da fisica a spirituale, perchè – come è ben noto – yoga significa unione. Unione di corpo e mente e, ad un livello più profondo, unione di mente e anima.
Si viaggia dal corpo fisico (Annamayakosha), attraverso l’uso del respiro (Pranamayakosha), verso la propria mente (Manomayakosha). Lo scopo dello yoga è la meditazione, e non si può rimanere seduti a lungo a meditare se il corpo non è abbastanza forte e sano.
Nessuno ci regala niente, lo yoga richiede disciplina, sacrificio e fatica, d’altro canto, la stessa cosa vale per la vita. Affrontare le posture e imparare a rimanerci comodi e stabili (shtira sukham asanam) significa abbandonare il proprio ego, significa imparare ad accettare i propri limiti trasformandoli in punti di forza. Allo stesso modo affronteremo poi le situazioni della vita, impareremo a rimanerci comodi e stabili, impareremo a cambiare ciò che non ci piace (perché lo yoga porterà inevitabilmente dei cambiamenti!) e ad accettare ciò che non possiamo cambiare.
Occorre infine ricordare che alla base della pratica ci sono dei principi fondamentali: ahimsha (non violenza), satya (onestà), asteya (non rubare), bramacharya (controllo dei sensi), karuna (compassione), maitri (benevolenza).
Principi che bisognerebbe applicare nella vita di tutti i giorni e che sono ben più complicati di una postura (soprattutto in un’epoca come la nostra)!
Le asana sono la parte più semplice di tutta la pratica, quello che conta è il viaggio interiore che si percorre quando ci troviamo sul tappetino, quello che conta sono i nostri pensieri, le nostre parole e le azioni che compiremo nella vita di tutti i giorni.
Questo è ciò che differenzia uno yogi da una persona che fa yoga.
Finché vorrai tentare, finché saprai rialzarti quando cadi, avrai successo.
(Paramahansa Yogananda)